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Agilità e Pregiudizio: evitiamo i bias ponendoci le giuste domande

4 Agosto 2021 - 7 minuti di lettura

Nella vita di tutti i giorni, come nel nostro lavoro in team, facciamo delle scelte, che potrebbero essere facilmente influenzate.

Da cosa? Se la nostra intuizione non fosse altro che un effetto della pigrizia del nostro cervello? Se il pensiero logico fosse più difficile di quanto ci aspettiamo?
Le nostre menti sono più complesse di quanto immaginiamo, e spesso cadiamo nelle trappole dei bias cognitivi.
Sappiamo che il mindset Agile e quindi alcune pratiche dell’agilità, hanno in sé alcuni strumenti e tecniche per aiutarci.
Di queste tematiche ha trattato Vito Abrusci, che nella sua esperienza di Agile Coach con i team li aiuta, tra le altre cose, a porsi domande che siano il più giuste possibili e lontane da pregiudizi. Agilità e Pregiudizio!

Attenzione alla domanda sbagliata! Chi ricopre un ruolo di leadership ha un compito non semplice: rendere le persone responsabili e anche di empatizzare con le loro difficoltà (alcune delle quali, per inciso, hanno causato loro stessi, i leader). Il tipo di risposta a questa sfida definisce la cultura di quel team.
Come fare per raggiungere un ipotetico “Paradiso”? Ovviamente una soluzione semplice non esiste, ma esiste una strada sicura per il fallimento e consiste nel pensare che dobbiamo scegliere se ritenere le persone responsabili oppure entrare in empatia.
Di questo ha parlato Pierpaolo Muzzolon, nella seconda parte di un webinar del 14 Giugno in “coabitazione” con Vito, spiegandoci la griglia manageriale di Blake e Mouton.

Buona lettura.

Agilità e pregiudizio

Cosa si intende con la parola bias, o meglio bias cognitivo?

Dalla pagina Wikipedia:

Il bias è un pattern sistematico di deviazione dalla norma o dalla razionalità nel giudizio. In psicologia indica una tendenza a creare la propria realtà soggettiva, non necessariamente corrispondente all’evidenza, sviluppata sulla base dell’interpretazione delle informazioni in possesso, anche se non logicamente o semanticamente connesse tra loro, che porta dunque a un errore di valutazione o a mancanza di oggettività di giudizio.

Usando una metafora possiamo vedere i bias come scorciatoie che il nostro cervello prende per risparmiare energie per fare delle scelte…dei pregiudizi quindi, su cose o persone.
In merito alla nostra quotidianità di lavoro in team, ecco tre tra i bias più ricorrenti;

  • Effetto alone: bias per il quale la percezione di un tratto è influenzata dalla percezione di uno o più altri tratti dell’individuo o dell’oggetto. Un esempio è giudicare intelligente, a prima vista, un individuo di bell’aspetto. Vito ha preso come esempio la pubblicità di George Clooney intento a bere un caffè. L’attore si presenta carino e simpatico, e in qualche modo pensiamo che quel caffè sia più buono. Tornando alla nostra realtà, potremmo essere portati a giudicare la bontà di un progetto magari solo dalla presentazione PowerPoint…
  • Bias di negatività: relativo alla tendenza delle persone ad essere più attente, sensibili, nel ricordare in maggior parte gli stimoli negativi. Questo bias incide molto sulle decisioni e può creare diverse problematiche anche nel team. Ad esempio un team che nell’ultimo sprint ha chiuso 10 task di cui solo un paio sono andati male, si concentrerà su questi ultimi. Capita inoltre, da parte del management, di enfatizzano il costo di quel fallimento per far aumentare gli sforzi delle persone su quell’attività…non va bene, ne andrebbe a discapito dell’efficacia sul lavoro.
  • Bias di superiorità illusoria: bias più comunemente noto/associato all’effetto di Dunning-Kruger. Brevemente, chi non è esperto in un certo campo tende a sopravvalutarsi su quello. Si manifesta ad esempio tutte le volte che dobbiamo dare un feedback. Per evitarlo sarebbe opportuno cercare di considerare il dato oggettivo quindi non dire “Tu hai sbagliato” ma piuttosto “La feature su cui stiamo lavorando non è funzionale all’obiettivo”. Meglio lavorare sul dato anziché sulla persona.

Per approfondimenti sui bias, vi invito a leggere il mio articolo tratto da un altro webinar a cura di Vito e Pierpaolo.

Agile mindset

Agile con il suo Manifesto e mindset ci viene in aiuto perché ci permette di concentrarci sulle nostre attività (focus), da svolgere insieme (relazione) collaborando. Importante anche il concetto di agentività, ovvero intervenire sulla realtà per poterla cambiare. Per approfondimenti rimando alla lettura dell’articolo “Manage your emotional culture”.

Alcune pratiche utili:

  • Organizzare il lavoro in sprint temporali di 1 o 2 settimane organizzati, e alla fine di questi organizzare retrospettive per capire capire cosa è andato bene e cosa non. Il punto è che per ognuna di queste iterazioni si abbini un’attività di miglioramento per la successiva.
  • Dare importanza al feedback. Sfruttarlo a proprio vantaggio, e soprattutto quando lo si da, cambiare punto di vista e magari provare a mettersi nei panni di chi lo riceve. Meglio ancora, deciderlo assieme.
  • Coltivare la “cultura della curiosità” e promuovere un conflitto sano magari sforzandosi di porre domande al prossimo cercando di farlo sentire a proprio agio. Le persone, sentendosi bene e soprattutto più libere, promuoveranno questa cosa e quindi si avranno anche feedback migliori.

Il tutto per costruire fiducia nel team e creare una sorta di “sicurezza psicologica”, un concetto elaborato dalle ricerche di Amy Edmonson e su cui si basa il libro “Organizzazioni senza paura. Creare sicurezza psicologica sul lavoro per imparare, innovare e crescere”.

La domanda sbagliata

La griglia manageriale di Blake e Mouton

La griglia manageriale di Jane Mouton e Robert Blake, teorizzata nel 1964, è un approccio al team building che definisce una griglia di cinque differenti stili di management sulla base di valori (da 1 a 9) di due dimensioni:

  • Asse x: la preoccupazione del management per i risultati, la produzione.
  • Asse y: la preoccupazione del management per le persone.

Chi si preoccupa soprattutto per le persone, tenderà a focalizzarsi maggiormente sulle loro esigenze e a seguirne da vicino lo sviluppo professionale e personale. Al contrario, il manager più preoccupato per la produzione rivolgerà la sua attenzione ai livelli di produttività raggiunti, ai diversi obiettivi da perseguire e all’efficienza con la quale vengono raggiunti.

I cinque stili di management

In base alle due dimensioni individuate e ai punteggi raggiunti, Blake e Mouton hanno identificato ben cinque stili differenti di management:

  • “Impoverito” o Lassista (in inglese “Impoverished management”)  – (1,1) – : un leader che appartiene a questo primo gruppo è quello che nessuna organizzazione vorrebbe mai assumere. Spesso si rivela del tutto inefficace perché non è particolarmente interessato né alla produttività, né alle persone.
  • “Country Club” (in inglese “Country Club management”) – (1,9) – : in questo caso il manager si concentra sulle persone perché ritiene che, se si sentono serene e sicure, lavoreranno meglio.
  • “Produrre o Morire” (in inglese “Produce-or-Perish”) – (9,1) – : si identificano in questo stile i leader autoritari che antepongono sempre e comunque il raggiungimento degli obiettivi alle esigenze dei singoli.
  • “Squadra” (in inglese “Team management”) – (9,9) –  : un leader di questo tipo si preoccupa in egual misura delle persone e della produttività. E’ lo stile manageriale preferito dai due studiosi che hanno inventato il modello perché si ritiene che, quando i collaboratori sono coscienti degli obiettivi da raggiungere e vengono coinvolte fin dall’inizio nel percorso necessario per raggiungerli, le loro esigenze e quelle dell’azienda tendono a coincidere.
  • “A metà strada” (in inglese “Middle-of-the-Road management”) – (5,5) – : un manager di questo tipo cerca un qualche equilibrio tra le due esigenze ma, così facendo, non riesce ad accontentare le persone né a raggiungere i livelli di produttività richiesti perché da entrambe le parti si ferma, per l’appunto, a metà strada e cede a compromessi.

Associamo a ciascuno di questi stili una metafora (tranne “Middle-of-the-road”, già chiaro):

  • Impoverito -> Incubo
  • Country Club -> Centro Benessere
  • Produrre o Morire -> Campo Militare
  • Squadra -> Paradiso

Le domande sbagliate

A ben pensarci però, questa suddivisione nasce da alcune considerazioni o meglio domande sbagliate

“Dobbiamo lavorare duro o in maniera intelligente?
“Dobbiamo puntare all’empatia o sulla responsabilità?

Altra considerazione sbagliata: un manager non deve decidere se far vivere i team in un centro benessere o in un campo militare.

Che cosa possiamo fare?

Pierpaolo suggerisce alcuni approcci:

  • Aggiornare i propri modelli, e non affidarsi ad uno solo. Riprendendo una citazione di Charles Thomas Munger ,”la prima regola è che bisogna avere più modelli”.
  • Responsabilità non è bullismo. Trattenere le proprie emozioni non le nasconde, rende solo incoerente il nostro comportamento. Un manager che fa spesso uso di toni duri ed espressioni di rabbia cattura la nostra attenzione, ma non è l’approccio giusto

Alcuni passi sui quali vale la pena ragionare:

  • Creare una cultura in cui le conversazioni siano la normalità, non occasioni speciali.
  • Riconoscere che il feedback è intrinsecamente stressante e adottare misure per renderlo meno minaccioso.
  • Coltivare una relazione più stretta con la propria vulnerabilità.
  • Espandere il proprio vocabolario emotivo per scegliere la parola giusta.
  • Adottare un approccio ponderato per le decisioni.

In conclusione del suo intervento, Pierpaolo ci ricorda che l’empatia non è un accordo, non dobbiamo usare la forza per imporci. Riportando una citazione di
Brené Brown:

“Empathy is about being vulnerable with people in their vulnerability”

In sostanza, ogni volta che vogliamo comunicare con le persone, ricordiamoci che l’altro è come noi, con le sue forze e le sue certezze ma anche incertezze e debolezze.

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